ROMA – Ultimamente la stampa locale è tornata a interessarsi di una nota che la Soprintendenza aveva inviato due anni fa a tutti i Comuni per sensibilizzare sul rispetto della normativa a tutela delle colture tradizionali nel territorio della Tuscia e della Maremma laziale.
Nonostante lo scalpore che la nota fece all’epoca (novembre 2020, in occasione del decennale dell’inserimento della “dieta mediterranea” nella lista del Patrimonio Immateriale dell’Umanità), non si aggiungeva nessuna norma o vincolo alla regolare pratica amministrativa della tutela del paesaggio.
Sebbene l’attività agro-silvo-pastorale sia libera (come sancito dal Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, D.Lgs. 42/2004, all’art. 149), il Regolamento delle procedure paesaggistiche (D.P.R. 31/2017) stabilisce già da diversi anni che, nelle aree sottoposte a vincolo paesaggistico, non possono essere esclusi dall’autorizzazione paesaggistica gli interventi di “sostituzione o messa a dimora di alberi e arbusti, singoli o in gruppi, in aree pubbliche o private”, a meno che non siano eseguiti “con esemplari adulti della stessa specie o di specie autoctone o comunque storicamente naturalizzate e tipiche dei luoghi”.
In particolare, se i terreni sono sottoposti a vincolo diretto (in base a dichiarazione di interesse culturale o comunque di notevole interesse pubblico), valgono le norme espresse nel decreto di vincolo. Tuttavia, se sono tutelati per legge (per esempio in prossimità dei fossi o in aree boscate, ma non solo) o sono considerati beni identitari, si applicano le norme del Piano Territoriale Paesaggistico Regionale (PTPR) che, nel caso di zone classificate come paesaggio agrario “di valore” o “di rilevante valore”, escludono la possibilità della “avulsione di impianti colturali arborei con valore tradizionale tipici della zona”.
Entro questi limiti, la valutazione della Soprintendenza deve far riferimento, tra l’altro, all’eventuale valore tradizionale tipico della zona delle colture interessate, che ne comporta il divieto di espianto anche a scopo di sostituzione con altre specie.
Naturalmente, la valutazione paesaggistica su “autoctonia” e “storicità” delle piante e delle colture non può essere fatta su scala provinciale e nemmeno su scala comunale, ma si riferisce di volta in volta al contesto paesaggistico di riferimento di cui fa parte l’area in esame.
Nei singoli casi, pertanto, le colture tradizionali e tipiche da tutelare possono essere quelle dell’ulivo e della vite, ma anche quelle della nocciola o della castagna, ovvero altre ancora, come è possibile verificare solo al termine di un’adeguata istruttoria. Insomma, a ogni paesaggio le sue giuste colture tradizionali.
Come abbiamo già avuto modo di comunicare nel 2020, questo non significa che non si possano più piantare noccioleti (come qualcuno ha inteso), ma che in ampie porzioni del nostro territorio è necessario passare al vaglio le proposte per verificare che non siano incompatibili con i valori dell’antica tradizione agricola, che comprendono eccellenze della produzione locale, rappresentate di volta in volta da olivi e viti, ma anche castagni, noccioli e altri ancora. Tutte queste e altre rinomate colture locali vanno tutelate con la stessa passione e lo stesso rigore. La legge c’è e va solo fatta rispettare: questo è il compito della Soprintendenza.
Ma i veri custodi del patrimonio immateriale dovrebbero essere i cittadini, ovvero la “comunità patrimoniale” che, come recita la Convenzione di Faro (ratificata dall’Italia nel 2020), “attribuisce valore ad aspetti specifici del patrimonio culturale e che desidera, nel quadro di un’azione pubblica, sostenerli e trasmetterli alle generazioni future”.