BOLOGNA – Restituito alla raffinatezza dei valori cromatici originari dopo un complesso e delicato restauro, il dipinto di Lavinia Fontana Giuditta con la testa di Oloferne torna ad essere visibile dal 5 al 12 aprile 2023 presso il Museo Civico d’Arte Industriale e Galleria Davia Bargellini di Bologna, in anteprima alla grande mostra personale Lavinia Fontana: Trailblazer, Rule Breaker che la National Gallery of Ireland di Dublino dedicherà alla celebre artista bolognese dal 6 maggio al 27 agosto 2023. Con questa esposizione, i Musei Civici d’Arte Antica – Settore Musei Civici Bologna intendono presentare al pubblico della città gli ottimi esiti ottenuti dall’intervento conservativo eseguito dal Laboratorio di Restauro Ottorino Nonfarmale S.r.l. e salutare l’opera prima che abbiano inizio la fasi funzionali al trasferimento verso l’Irlanda a partire dal 13 aprile.
La mostra Lavinia Fontana: Trailblazer, Rule Breaker
Tra i massimi rappresentanti della pittura tardo-manierista in Europa, Lavinia Fontana (Bologna, 1552 – Roma, 1614) è considerata da molti la prima donna artista a raggiungere il successo professionale al di fuori dei confini di una corte o di un convento. La pittrice fu la prima donna a gestire una propria bottega e la prima a dipingere pale d’altare pubbliche e nudi femminili.
Mantenne una carriera attiva, dipingendo per molti mecenati illustri e assumendo al contempo il ruolo di moglie e madre. Esplorando la straordinaria vita di Fontana attraverso i suoi dipinti e disegni, la mostra Lavinia Fontana: Trailblazer, Rule Breaker, a cura di Aoife Brady, offrirà una visione del clima culturale che le permise di prosperare come artista donna dell’epoca. La mostra di Dublino sarà la prima monografica ad esaminare il lavoro di Fontana in oltre due decenni e la prima a concentrarsi sui suoi ritratti. Sarà riunita una selezione delle sue opere più apprezzate, provenienti da collezioni pubbliche e private internazionali, insieme al celebre La visita della regina di Saba a re Salomone, proveniente dalla collezione permanente del museo nazionale irlandese.
Come immagine guida per la comunicazione dell’esposizione la scelta è ricaduta proprio sul dipinto Giuditta con la testa di Oloferne del Museo Civico d’Arte Industriale e Galleria Davia Bargellini. L’olio su tela, firmato e datato LAVINIA FONTANA DE ZAPPIS FECE 1600, appartiene alla maturità della pittrice, che affronta il soggetto biblico di ambientazione notturna con grande padronanza degli effetti luministici e con una sensibile attenzione alla resa analitica dei dettagli, di gusto fiammingo. Il volto dell’eroina, come quello della fantesca, paiono restituire tratti fisionomici peculiari, tanto da suggerire che possano identificarsi in due ritratti, come per altro accade in altri dipinti di analogo soggetto prodotti in area bolognese negli stessi anni (ad esempio da Agostino Carracci). Giuditta, vedova audace e pia, che osa sedurre il tiranno per ucciderlo e liberare così il proprio popolo, si presta infatti a fornire i sembianti per un travestimento in veste biblica, essendo modello di virtù femminile apprezzato nell’età di Controriforma, tanto da divenire tema fra i più ricorrenti nei quadri da stanza destinati agli interni dei palazzi nobiliari.
Scheda critica a cura di Vera Fortunati
Lavinia affronta con audace originalità anche soggetti mitologici e biblici di eroismo femminile per giungere al genere più ambito della pittura di historia. È il caso delle due Giuditte, tema iconografico che gode di grande fortuna nel clima religioso e politico dopo il Concilio di Trento: nel 1586 con grande successo Tommaso Garzoni pubblica Le vite delle donne illustri della Scrittura Sacra, dove Giuditta viene con enfasi rilanciata suggerendo diverse interpretazioni. Nel 1592 circa Lavinia dipinge per la famiglia Ratta (Urbini, 1994) la Giuditta e Oloferne (Bologna, Fondazione del Ritiro di San Pellegrino), dove non sceglie l’acme del tragico racconto, ma raffigura la bellissima, pia vedova di Betulia, stante con in mano la testa di Oloferne posata su un tavolo, mentre alle spalle si intravvede il corpo decapitato del generale. Il modello di confronto è il dipinto di analogo soggetto (Bologna, UniCredit), attribuito ad Agostino Carracci (Benati, 1999), ma del tutto innovativa è l’ambientazione notturna, a “lume di torcia” secondo l’espressione di Malvasia (1679): il raffinato sperimentalismo luministico di matrice veneta, bassanesca, mette in risalto i filamenti luminosi delle preziose vesti della protagonista, fino ad evidenziare sulla spada il grumo di sangue (Biancani, 2022). Sono gli anni in cui la pittrice è particolarmente attenta alla pittura di Jacopo Bassano, conosciuta su esemplari conservati nelle collezioni bolognesi, come si può vedere nella bellissima Natività della Vergine (Bologna, chiesa della Santissima Trinità). In questa versione nel volto di Giuditta, gli occhi rivolti al cielo, vive lo slancio mistico di chi ha agito affidandosi interamente alla volontà divina che l’ha ispirata e guidata. Per la studiosa Murphy (2003) si tratterebbe di un cripto-ritratto di Laerzia Rossi Ratta, moglie del defunto Carlo Ratta, madre di Lorenzo erede di Monsignore Dionisio Ratta.
Sul finire degli anni ’90 la Giuditta e Oloferne del Museo Davia Bargellini si distanzia sia per una rilettura alternativa del testo sacro sia in seguito al recente restauro per una più matura assimilazione della pittura veneta, in direzione di Paolo Veronese, secondo un’ipotesi verisimile di un viaggio della pittrice a Venezia. Ma procediamo con ordine. L’avvenente eroina avanza verso lo spettatore, mostrando orgogliosa la testa del tiranno: è consapevole di aver salvato il suo popolo con il tragico gesto. È già la femme forte secondo l’immagine classica e biblica che sarà in auge nella letteratura femminista del Seicento europeo. Il restauro ha evidenziato l’eccezionale resa dei superbi accordi cromatici, debitori di una luce e di un colore non solo carracceschi ma anche veneti e la fresca vitalità di un lume otticamente meditato che fa risaltare la consistenza delle sete, dei veli, dei broccati e la lucentezza delle perle bianche, alcune fanno ombra, e la fastosa preziosità dei gioielli.
Si segnala soprattutto il grande pendaglio, emblematico esempio dell’alta qualità dell’oreficeria presente a Bologna, con l’immagine del pavone, simbolo di generosità e lealtà d’animo (Cantaro, 1989; Urbini, 1994). Da notare anche la cesta con il panno bianco rimboccato, sorretta dalla giovane ancella Abra, compagna d’avventura: sembra già un brano di una natura morta. Anche se la firma e la data sono state ridipinte, questo capolavoro, a mio parere, è da collocare alla fine del Cinquecento, perché la protagonista, di una bellezza neoveronesiana, è simile ad alcune dame della corte della regina di Saba nel grande dipinto Visita della regina di Saba a Salomone (cm 256 x 325) di Dublino, National Gallery, originariamente nella collezione bolognese della famiglia dei conti Berò (Chiodini, 1999): la stessa liquida stesura cromatica esalta la profusione di ricami, di cascate di damasco e di velluti, di trine, come la lucentezza dei gioielli e delle pietre preziose.
Questi eccezionali risultati si ritrovano nell’ultima attività a Roma dove la pittrice si reca nel 1604.
Vicina alla bionda Giuditta del Museo Davia Bargellini è anche la Samaritana nel dipinto Cristo e la Samaritana di Napoli, Museo di Capodimonte, firmato e datato 1607: le accomuna la stessa raffinata descrizione degli abiti e delle ricercate acconciature dei capelli, del tutto femminili, perché frutto di chi conosce per personale esperienza le sottili arti della seduzione.
Ma forse la vera erede della Giuditta Bargellini è la Minerva ignuda (collezione privata), celebrata nel poemetto di Ottaviano Rabasco (1605) con dedica a Marco Sittrico Altemps IV, futuro arcivescovo di Salisburgo (Tosini, 2019) e grande amico del cardinale Scipione Borghese: è la Minerva Pacifera, una iconografia in voga alla corte di Rodolfo II a Praga, è la dea nuda che governa le arti di pace dopo essersi spogliata del peplo, dell’elmo e della corazza.
Entrambe sono accomunate da un repertorio di sottili invenzioni erotiche (vedi i ricami dorati del velo trasparente…) che rimandano ai maliziosi prototipi dell’Ecole de Fontainebleau e della scuola rudolfina, ma soprattutto in entrambe il corpo della donna diviene per la prima volta campo espressivo di specifici, femminili stati d’animo, volti alla seduzione, esibiti senza compiacimento retorico ma con spontanea, istintiva naturalezza. Per la Giuditta Bargellini alcuni studiosi, senza riferimento ad alcun documento di archivio, avanzano l’ipotesi che sia il ritratto di Costanza Bianchetti, la vedova di Galeazzo Bargellini.
Il restauro conservativo
L’opera in generale presentava uno stato conservativo mediocre, restituendo una visione generale molto cupa, attenuata nelle tonalità e offuscata anche da depositi superficiali che riducevano notevolmente le qualità stilistiche e pittoriche della grande pittrice. Si è ritenuto che tale situazione conservativa sia stata dettata e abbia coinciso anche con le modifiche dimensionali subite dall’opera.
L’intervento di restauro, eseguito dal Laboratorio di Restauro Ottorino Nonfarmale S.r.l. sotto la direzione tecnica di Giovanni Giannelli, è stato finalizzato al recupero di quei dettagli figurativi molto raffinati, quel colorismo, a quelle luci e tonalità accese e vivaci che contraddistinguono l’artista bolognese.
Eseguite le verifiche sul retro e riscontrata la funzionalità del telaio di supporto ma in particolare della tela di rifodero e rinforzo si è proceduto con l’analisi sul fronte del dipinto. L’analisi attenta e articolata per il conseguimento del recupero cromatico originale, è iniziata con i consueti test di prova per individuare la corretta metodologia da applicare. Le operazioni di pulitura sono risultate molto complesse e delicate in quanto per rimuovere in sicurezza i vari strati di vernice sovrapposte si è reso necessario procedere con piccoli tamponi. Ultimata la fase di pulitura della superficie pittorica sono state verificate attentamente le stuccature presenti a integrazione di lacune materiche e realizzate a spessore con gesso di Bologna e colla di coniglio. Riscontrata la perfetta adesione al supporto, la compattezza e verificata la stabilità, si è ritenuto opportuno il mantenimento delle stesse e integrarle per riottenere i giusti livelli e riprodurre con specilli in acciaio le crettature che caratterizzano la superficie. Applicata a pennello vernice mastice diluita in essenza di trementina su tutta la superficie pittorica si è proceduto con la fase di integrazione pittorica delle lacune. Preliminarmente con integrazione delle zone perimetrali con tonalità adeguate e rifinite in continuità con i piani le forme corrispondenti. Le lacune sulla superficie pittorica originale sono state integrate a carattere mimetico per poter ottenere una visione di insieme uniforme e un equilibrio formale finalizzato alla massima valorizzazione dell’opera di elevatissima qualità.
L’imponente cornice presenta condizioni conservative buone e quindi è stata sottoposta a un intervento di manutenzione straordinaria con una pulitura per la rimozione superficiale del deposito polveroso parzialmente aggregato. Le piccole lacune e fessurazioni sono state colmate con gessatura preparatoria per l’integrazione eseguita con oro zecchino. L’attuale cornice è il frutto di un assemblaggio di tre elementi di diversa fattura: la cimasa superiore e la cassetta applicata dal retro, con una semplice chiodatura negli angoli alla cornice più antica e raffinata che circonda il dipinto. Questo intervento con molta probabilità coincide con uno dei restauri a cui è stata sottoposta l’opera in oggetto, con l’intento di dare maggiore sontuosità al dipinto.
Una particolarità riscontrata durante il restauro è stato il rinvenimento di un’ulteriore firma, immediatamente sotto a quella già presente. L’iscrizione è particolarmente abrasa ma leggibile in LAV FON. Con molta probabilità si tratta di quella originale, in quanto l’altra LAVINIA FONTANA DE ZAPPIS FECE 1600 appare molto incerta e grossolana. Questa deduzione si può riscontrare ingrandendone le dimensioni reali. Si potrà notare con chiarezza il tratto realizzativo molto incerto rispetto a quella rinvenuta durante il restauro che diversamente appare realizzata con molta cura e perizia. La scelta adottata in accordo con la direzione dei lavori di mantenerle entrambe risulta coerente in tema di conservazione, in quanto l’una ormai storicizzata, l’altra riportata alla luce in una visione di ritrovamento e motivo di studio e di riscontro su altre opere della pittrice che verranno sottoposte a interventi diagnostici o interventi di restauro.
L’opera ora restituisce quei dettagli raffinatissimi che si possono cogliere nel velo che scende sulle spalle dal capo, nei gioielli e nell’abito che indossa Giuditta. Il fondale non più cupo, ma luminoso e vibrato, le due figure, la mano destra con la spada e la sinistra con la testa di Oloferne ci riconsegna quella profondità e prospettiva scenica creata da Lavinia Fontana.
Bologna città delle donne artiste
Dal Medioevo al Novecento il ruolo femminile a Bologna è significativo sia nel campo delle arti figurative che in quelli della letteratura e delle scienze, anche per la specificità del contesto storico cittadino dove la presenza dello Studium precocemente è promotrice di valori alti femminili nella cultura. Bologna può essere considerata a tutti gli effetti la città delle donne artiste: Properzia de’ Rossi (Bologna, 1490 circa – Bologna, 1530), Lavinia Fontana (Bologna, 1552 – Roma, 1614), Ginevra Cantofoli (Bologna, 1618 – Bologna, 1672), Elisabetta Sirani (Bologna, 1638 – Bologna, 1665), Anna Morandi Manzolini (Bologna, 1714 – Bologna, 1774) e Clarice Vasini (Bologna, 1732 – Bologna, 1823) sono tra le più celebri protagoniste della storia dell’arte, tutte vissute nel capoluogo emiliano.
Nelle collezioni permanenti dei Musei Civici d’Arte Antica si conservano importanti testimonianze del fenomeno della donna artista: dallo Stemma della famiglia Grassi di Properzia de’ Rossi al Museo Civico Medievale al Ritratto di Gonfaloniere di Artemisia Gentileschi, a Giuditta con la testa di Oloferne di Lavinia Fontana del Museo Civico d’Arte Industriale e Galleria Davia Bargellini. Nel museo situato nel Palazzo Bargellini sono inoltre conservati il piccolo gruppo in terracotta con la Madonna con il Bambino e Santi di Clarice Vasini, nominata Accademica Clementina ad honorem nel 1770, l’opera Fanciulla con pecorella (Sant’Agnese?), riferita su base stilistica alla mano di Ginevra Cantofoli, pittrice attiva nella bottega della celebre Elisabetta Sirani, la cui identità artistica è recentemente riemersa grazie agli studi critici, e alcuni lavori di ricamo e cucito provenienti dal Conservatorio delle Putte di Santa Marta, dove le orfane ospiti dell’istituto di assistenza hanno elaborato veri e propri capolavori d’arte, in genere destinati a committenti privati.
Tra questi, merita di essere menzionato per l’altissimo valore artistico il piccolo quadretto del XVII secolo con il Miracolo di San Benedetto, realizzato in filo di seta policroma ricamata a punto piatto, che rientra nel capitolo della fortuna figurativa riservata, fra Sei e Settecento, al celebre affresco col Miracolo di San Benedetto realizzato da Ludovico Carracci nel Chiostro del Monastero di San Michele in Bosco, purtroppo andato perduto.