CIVITAVECCHIA – La riapertura al pubblico del Museo Archeologico Nazionale di Civitavecchia, istituto culturale del Ministero afferente alla Direzione Regionale Musei del Lazio, è stata l’occasione per una revisione generale degli allestimenti e dei depositi museali. E questo lavoro ha riservato una sorpresa agli archeologi e al personale impegnato nell’aggiornamento dell‘esposizione, coordinato dalla direttrice Lara Anniboletti e dall’archeologo Alessandro Mandolesi. In particolare, la ricognizione nei magazzini ha permesso di riscoprire all’interno di una cassetta confusa fra numerosi materiali in pietra, tre importanti frammenti in marmo greco, quasi dimenticati, appartenenti a una delle statue più belle e pregiate presenti in museo.
Al piano terra si conserva un‘importante selezione di sculture di epoca romana provenienti dall’area del porto traianeo di Centumcelle e dalle lussuose ville marittime che punteggiavano il litorale a nord di Roma. Vere e proprie dimore d’ozio, caratterizzate da un impianto scenografico di sale affacciate sull’azzurro del mare, a volte con annesse peschiere, appartenevano a personalità del mondo politico e culturale dell’Urbe. Tra queste spicca la villa attribuita al giurista Ulpiano, vissuto nel III secolo d.C., uno dei fondatori della dottrina giuridica romana, i cui resti sono stati individuati nell’Ottocento a Santa Marinella, in corrispondenza del promontorio del Castello Odescalchi che domina il porticciolo della cittadina. Evidentemente Ulpiano, oltre a essere un fine scrittore e amante della letteratura, era anche un cultore della grande arte greca di età classica ed ellenistica, quella con la A maiuscola, se dalla sua villa provengono diverse repliche in marmo greco di famose sculture antiche che dovevano impreziosire gli spazi a lui più cari, oggi esposte in vari musei europei. Come Dionisio e Pan di tipo prassitelico, un Meleagro attribuito a Skopas e, soprattutto, l‘Athena Parthenos di Fidia a grandezza naturale, rinvenuta alla fine degli anni 1950, oggi esposta al Museo di Civitavecchia.
La testa che integra lo spettacolare corpo contraddistinto dalla plasticità del chiaroscuro delle pieghe della tunica, è tuttavia una copia di quella originale, ritrovata alla fine dell’ottocento e trasferita al Louvre di Parigi. Dell’Athena del Partenone rimangono rare copie in scala ridotta, e quella di Civitavecchia spicca per qualità di esecuzione e stato di conservazione.
Protagonista della nostra “riscoperta“ è un dinamico Apollo alto circa 2 metri che, accanto all’Athena fidiaca, catalizza lo sguardo dei visitatori del museo. La statua, nella testa dai delicati tratti giovanili, nel movimento spiraliforme del busto e nell’esasperazione del rapporto chiastico degli arti, tradisce una chiara influenza dallo stile di Lisippo, l’artista prediletto da Alessandro Magno, uno dei maggiori scultori dell’antichità. L’opera, databile al I-II secolo d.C. come il più celebre e restaurato Apollo Belvedere dei Musei Vaticani – considerato replica di un bronzo dello scultore Leochares, a cui era stato a torto accostato anche l’Apollo di Civitavecchia –, è stata trovata nel 1957 all’interno di Villa Simonetti, sempre nell’ambito della grande villa marittima di Ulpiano. La statua si rinvenne mutila, con accanto i frammenti della gamba sinistra, della mano destra e della fiaccola impugnata, i quali, non reintegrati nel successivo restauro, finirono nei depositi del museo.
Su questa mirabile opera si sono concentrati in passato gli studi del prof. Paolo Moreno, recentemente scomparso, specialista di scultura greca e autore di importanti saggi su Lisippo e sui Bronzi di Riace. Moreno, analizzando la combinazione fra fonti letterarie antiche e monumenti di collezioni archeologiche, ha evidenziato la grande qualità e l’importanza iconogafica dell’Apollo di Civitavecchia, considerato nientedimeno che la replica del Colosso di Rodi. La grandiosa statua bronzea dedicata al Sole-Helios, massima divinità dell’isola, venne realizzata nel 293 a.C. da Carete di Lindo, fedele allievo di Lisippo, un’opera di inaudita altezza che raggiungeva quasi i 32 metri.
Innalzata per festeggiare la liberazione dall’assedio di Rodi da parte di Demetrio Poliorcete, nell’ambito delle guerre combattute fra gli eredi di Alessandro Magno, le fonti antiche ricordano il dio con in mano una fiaccola rivestita d’oro, a simboleggiare Fosforo, ossia il pianeta Venere visibile all’aurora nel momento in cui precede il Sole. Il colosso nudo di Carete fu abbattuto dal disastroso terremoto che sconvolse Rodi nel 228 a.C.; i suoi frammenti rimasero a terra per molto tempo ricordati da Plinio il Vecchio (Naturalis Historia, XXXIV, 41 sg.) per la grandiosità tanto che le dita erano più grandi di molte statue intere, e per le immense cavità che si aprivano fra le membra infrante.
Nella slanciata e armonica torsione del busto verso sinistra, l’Apollo-Helios di Civitavecchia porta, appoggiata alla schiena, la faretra chiusa con la tracolla e, con la mano sinistra abbassata, regge l‘arco, desinente a testa di cigno. È presumibile che nell’originale in bronzo l’arma fosse tenuta lateralmente, in modo da poggiare a terra con un’estremità e creare equilibrio alla parte destra del corpo, eccessivamente sbilanciata dal piede sollevato in punta e dal braccio destro alzato sopra il capo, a reggere la fiaccola ardente. L’arco doveva anche essere funzionale a nascondere i tiranti in ferro ricordati dalle fonti per fissare a terra l’opera colossale.
L’identificazione dell’Apollo di Civitavecchia con il Colosso è rafforzata ulteriormente, secondo Moreno, dalla quasi identità del giovane volto – il moto del capo verso l‘alto, la bocca semiaperta, le palpebre appena abbassate nello sforzo di guardare in alto e i dettagli della capigliatura con anastolé frontale – con una testa in terracotta conservata al Museo di Rodi che, presentando i fori per il fissaggio della corona di raggi, è indiscutibilmente una replica del dio Helios. La testa di Rodi, unitamente all’impostazione complessiva dell‘Apollo di Civitavecchia con la fiaccola alzata, ci consegnano probabilmente l’immagine più completa e credibile del celebre Colosso di Rodi, che riproponiamo con la ricostruzione grafica di Massimo Legni (Architutto Designers).
La riscoperta dei frammenti marmorei nei magazzini del Museo di Civitavecchia, mai reintegrati poiché la statua è lacunosa di parte della gamba sinistra e del braccio che sosteneva la fiaccola, oggi esposti in Museo accanto all’opera, permettono di modellare tridimensionalmente l’Apollo-Helios, e di comprendere appieno la maestosità del gesto e l’imponenza dell’assetto scultoreo, in piena adesione alla ricostruzione grafica già ipotizzata dallo studioso.
Il Colosso doveva innalzarsi nel santuario dedicato al dio Helios, ai piedi dell’acropoli di Rodi in corrispondenza della strada che conduceva al porto, anche se la spiccata distanza tra i piedi rimasti saldi nel basamento della copia di Civitavecchia, alimentò l’idea fantasiosa che fra le sue gambe sarebbe potuta passare una nave e che il Colosso fosse posto all’ingresso del porto, costituendo con il fulgore della torcia un riferimento per i naviganti. L‘errato stereotipo del Colosso di Rodi con le gambe divaricate poggiate all’ingresso del bacino, si consolidò nel tempo e venne ripetuto in incisioni e dipinti di età moderna, fino a divenire addirittura un moderno souvenir in vendita a Rodi.
La gestualità solenne del Colosso è stata immortalata perfino dalla Statua della Libertà di New York, donata dalla Francia e inaugurata nel 1886, opera di F.-A. Bartholdi ispirata proprio al celebre monumento di Rodi, sulla base dell’epigramma che sarebbe stato scolpito alla base dell’opera e conservato nell’Antologia Palatina (VI, 171). La Statua della Libertà condivide infatti con l’Apollo-Helios di Civitavecchia, oltre al braccio sollevato con la fiaccola, l‘enfasi del movimento della gamba destra portata all’indietro, espediente usato per aumentare la superficie di posa di un monumento enorme. Filóne di Bisanzio, scrittore greco di argomenti tecnici del III sec. a.C., che aveva visto di persona la meraviglia di Carete, la ricordava così: «C’è ora al mondo un secondo Sole», che oggi possiamo rivedere nelle forme originali in un museo italiano.
Massimo Osanna, direttore generale dei Musei Italiani dichiara in merito alla ricostruzione dell‘Apollo: “Il caso del Museo di Civitavecchia, su cui il Ministero sta investendo per una riqualificazione in termini di fruizione, dovrebbe costituire un modello virtuoso per i musei archeologici meno noti che punteggiano il nostro territorio. Carichi di testimonianze significative per il contesto storico e culturale su cui insistono, sono anche in grado di riservare vere e proprie scoperte, come nel caso della stupefacente vicenda dell‘Apollo, i cui significativi frammenti erano stati a torto dimenticati nella polvere dei depositi. I depositi dei musei vanno resi fruibili, considerati come archivi e biblioteche di oggetti, che possono anche favorire la ricontestualizzazione delle opere d’arte, là dove è possibile e sussistono le condizioni di tutela e sicurezza”.