CIVITAVECCHIA – “Che si tenga il massimo della documentazione, che si facciano filmati, che si registrino i testimoni, perché, in qualche momento durante la storia, qualche idiota potrebbe sostenere che tutto questo non è mai successo” si tratta di una celebre frase pronunciata dal Supremo Comandante delle Forze Alleate Generale Dwight Eisenhower quando vide le vittime nei campi di concentramento. Sono passati ben 73 anni da quel 27 Gennaio 1945 quando le truppe sovietiche arrivarono alle porte di Auschwitz liberando i sopravvissuti dai campi di concentramento.
Il 13 giugno 2017 ebbi l’opportunità di assistere ad una conferenza organizzata da Don Sandro Mambrini dal titolo “Menti Dentro”, presso la Casa di Reclusione “Giuseppe Passerini” di Civitavecchia. In tale occasione, ho avuto la possibilità di ascoltare la Testimonianza di Piero Terracina reduce dal campo di Auschwitz Birkenau.
Riporto di seguito la Testimonianza di Piero Terracina:
“Sono stato all’inferno creato da uomini per altri uomini e si chiama Auschwitz Birkenau. Quello è un luogo di morte. La colpa era quella di professare una religione diversa e per questo oltre sei milioni di ebrei furono sterminati. L’80% delle persone che entravano nel lager venivano uccise nelle camere a gas, il restante 20% venivano sfruttati fino alla morte. Una fila continua di padri, madri, fratelli e sorelle uscivano attraverso il fumo e le scintille. Arrivai in quel luogo quando compii 15 anni e fui deportato con la famiglia. Oltre i miei genitori eravamo quattro figli – io ero il più piccolo – ed i nonni paterni. Stetti lì circa un anno. Nel 1938 furono emanate le leggi contro gli ebrei: ci venne precluso lo studio, non potevamo frequentare più le scuole italiane. Ma noi eravamo italiani a tutti gli effetti; fummo costretti a frequentare quelle ebraiche. A quel tempo facevo la quarta elementare e mi dovevo iscrivere alla quinta. I miei amici sparirono, rimasi solo. Frequentai la scuola ebraica e strinsi nuove amicizie. I professori di religione ebraica furono licenziati dalle scuole e dalle università, anche gli accademici furono mandati via dalle accademie. Il partito fascista promulgò leggi stringenti: tutti i professionisti furono cancellati dagli ordini professionali. Mio padre perse il lavoro ed i figli iniziarono a lavorare nelle aziende ebraiche. Vennero proibite attività culturali e sportive. Non potevamo giocare a calcio, come facevano gli altri giovani, però nella zona di San Lorenzo c’era un campo di calcio dove ci fu permesso di stare. Non potevamo andare a mare; le coste della penisola e delle isole furono dichiarate di importanza strategica. Non potevamo vendere lana da materassi, pubblicare libri, articoli e ricerche scientifiche. Il 28 settembre 1943 il comandante della Gestapo a Roma Kappler chiamò il Capo della Comunità Ebraica locale e chiese di portare entro 36 ore ben 50 chili d’oro, altrimenti 200 padri di famiglia sarebbero stati deportati. Fu una corsa contro il tempo, la solidarietà fu tanta. Venne portata la quantità d’oro richiesta. Circa 20 giorni dopo le S.S. con la polizia circondarono il ghetto e portarono via tutti. Furono arrestate 1252 persone, di cui 230 rilasciate in quanto riuscirono a provare che non erano di religione ebraica. Il giorno dopo 1023 italiani furono portati alla stazione Tiburtina. Anni dopo tornarono a Roma 15 uomini ed una donna. Quel 16 ottobre con la mia famiglia riuscimmo a scappare: mio padre mi disse di andargli a comprare le sigarette, poi lo vidi arrivare di corsa e mi disse di fuggire via con lui. Quella sera furono arrestate tante persone. Pioveva, io e mio padre ci riparammo nei pressi di Villa Sciarra. Trovammo ospitalità in un appartamento libero. La mattina scendevamo in strada, facevamo dei piccoli acquisti che, in giornata, rivendevamo a coloro che ne avevano necessità. Il 7 aprile del 1944 fu l’ultima volta che vidi la mia famiglia. Stavamo festeggiando la Pesach, la Pasqua ebraica, e per noi è molto importante. Quella sera eravamo riuniti intorno alla tavola, non avevamo ancora iniziato la cena. Entrarono in casa due S.S. ed un italiano fascista. In venti minuti dovevamo essere fuori, portare con noi abiti e le nostre ricchezze che, a detta loro, ce li avrebbero riconsegnati. Erano degli sciacalli. Fummo portati nel carcere di Regina Coeli, senza avere alcuna colpa. Mio padre ebbe la percezione di quello che stava accadendo e disse “Siate uomini, non perdete mai la dignità.” All’interno del carcere trovammo solidarietà da parte degli altri detenuti; cercarono di farsi da parte e lasciare un posto per noi per farci riposare tranquilli. Arrivarono dei camion e fummo trasportati a nord di Roma, a Prima Porta. Il giorno dopo arrivammo nel Campo di Concentramento di Fossoli, nella campagna di Carpi in Emilia Romagna. Il 16 maggio ci portarono alla stazione dove salimmo a bordo di un treno merci, stipati come bestiame sotto il sole cocente. Il treno impiegò una nottata per fare circa 100 chilometri ed arrivare a Verona. Il giorno seguente proseguimmo il viaggio fino vicino a Bolzano. Viaggiammo in quelle condizioni 5 giorni e 4 notti. Il 23 maggio il treno arrivò nel campo di sterminio di Auschwitz Birkenau. Mi chiesero l’età e risposi di avere 15 anni, allora mi dissero di dire che avevo 18 anni. Mi tatuarono sul braccio sinistro il numero A5506. All’appello ci consideravano come dei pezzi, chiamati con dei numeri. Il lavoro era massacrante, dovevamo scavare dei canali. Mi era stato insegnato un sistema per trovare l’acqua: quando pioveva infilavamo una canna spaccata e sotto mettevamo una ciotola. L’acqua ce la portavano all’ora del pasto insieme ad una minestra calda. Molti non sopravvivevano per la fatica. Quando arrivavano gli ufficiali delle S.S. facevano una selezione, spartivano le persone in due file: a destra uomini, donne e bambini portati nelle camere a gas; erano i nostri cari, quello era un popolo che stava bruciando. A sinistra gli altri, costretti a fare lavori massacranti, ad assistere alle torture ed alla morte. Fu difficile. Uomini attaccati al filo spinato dove passava la corrente ad alta tensione. Vi racconto lo sterminio di Rom e Sinti. Loro vivevano in un campo adiacente, eravamo separati da un filo spinato. Lì c’erano molti bambini, sentivamo spesso le voci. In una notte del 1944 sentimmo arrivare le S.S., ci fu una grande confusione e poi silenzio. Alle 04.30 del mattino, ora della sveglia, andai a vedere cosa fosse accaduto e non vidi più nessuno. Tutti furono messi nelle camere a gas. Nel lager ci sono state amicizie, non si può stare soli. Ci raccontavamo le nostre giornate, parlavamo delle famiglie. Conobbi un ragazzo di Rodi ed il 27 gennaio 1945 eravamo insieme fuori da Auschwitz Birkenau. Sono trascorsi oltre 70 anni e l’amicizia con lui è ancora salda. Anch’egli si dedica alla testimonianza, affinché questo passato non torni più. La mia ebbe un valore: dal 1998 iniziai a parlare ai giovani studenti. L’allora Sindaco di Roma, Francesco Rutelli mi invitò a fare testimonianza nelle scuole, mi assegnò anche il Premio Campidoglio. Tornai più volte ad Auschwitz Birkenau. Non posso perdonare chi ha sterminato la mia famiglia e milioni di esseri umani, posso invocare giustizia ma non vendetta. Oggi coloro che hanno sterminato oltre sei milioni di persone non ci sono più, i loro nipoti non possono avere colpe”.